A tutti noi sarà capitato di trovarci a contatto con persone che stanno soffrendo per diverse ragioni: malattie, sofferenze sentimentali, momenti di vita difficili, ecc.
Che cosa proviamo e come stiamo in queste situazioni? Quando siamo disponibili a sostare con il dolore degli altri, sentiamo la spinta a volerlo alleviare e mettiamo in atto comportamenti concreti di aiuto, allora siamo sicuramente nella compassione.
Possiamo scorgere due abilità all’interno di questa qualità: la capacità di captare e accogliere la sofferenza, il dolore dell’altro e la capacità di agire in modo adeguato.
Il flusso della compassione
Nel loro libro “Mindful compassion”, Paul Gilbert (professore di psicologia clinica) e Choden (monaco buddhista) parlano del concetto di flusso della compassione, evidenziando come ci siano diverse direzioni della compassione. Possiamo essere compassionevoli verso l’esterno, quindi verso gli altri, ed è su questo versante che spesso si porta l’attenzione anche in letteratura. Ma questo è solo una parte, occorre essere aperti anche alla compassione e alla gentilezza che noi stessi possiamo ricevere dagli altri. Possiamo notare come gli altri ci possono sostenere, aiutare, alleviare il dolore. In fine, un altro aspetto del flusso della compassione è imparare ad essere compassionevoli verso noi stessi.
Come coltivare la compassione verso gli altri
Per esercitare e coltivare la compassione non sono necessari grandi gesti ma occorre trovare in noi la disponibilità ad essere presenti portando gesti gentili, pazienza, una carezza o un abbraccio. Questi gesti di compassione posso trasformare un momento di paura o di dolore.
Di fronte a persone a noi care, che conosciamo e a cui volgiamo bene, molto probabilmente risulta quasi automatico portare questa qualità nella relazione, mentre più difficile può essere attivare questi comportamenti nei confronti di estranei o ancora di più verso persone con le quali non andiamo d’accordo e siamo in difficoltà.
Christina Feldman, insegnante di meditazione del centro Spirit Rock della California, ha approfondito il concetto di compassione che descrive anche come “un invito ad attraversare lo spartiacque che separa noi da loro”. Un invito quindi a superare le barriere dei pregiudizi e a chiederci solo “Come sto accogliendo la persona di fronte a me in questo momento?”. Questa domanda ci porta quindi oltre il nostro giudizio di attrazione o repulsione verso chi abbiamo di fronte.
Quest’ultimo passaggio è senz’altro più difficile da attuare nel nostro quotidiano ma possiamo gradualmente “allenarci” con piccoli gesti, pensieri che ci possono gradualmente portare in quella direzione.
Coltivare la compassione verso se stessi
La compassione richiede molta attenzione per essere esercitata in modo benefico. A volte infatti potrebbe capitare che, seppur con l’intento di aiutare, facciamo “troppo”, sia per la persona che riceve sia per chi dona.
Ritagliarsi dei tempi di “ricarica” diventa quindi fondamentale. Spesso però, se si riesce a ritagliarseli, si vivono con sensi di colpa, come se si fossero sottratti momenti alla persona a cui ci stiamo dedicando. Sarebbe utile, al contrario, considerarli invece come essenziali per poter successivamente portare una presenza più solida, energica e autentica.
Coltivare la consapevolezza verso se stessi significa anche chiedere aiuto, cercare risorse che possano alleviare le nostre fatiche e accettare l’aiuto e il sostegno che ci vengono offerti.
Un elemento importante da tenere presente è quindi l’equilibrio tra la possibilità di aiutare qualcuno e i nostri limiti. È fondamentale cercare di non farsi sopraffare, non lasciarsi trascinare dalla sofferenza degli altri, altrimenti il rischio è di esaurire le nostre risorse.